sabato 6 luglio 2013

Lumen fidei: senza fede non c'è né speranza, né carità (Morra)

È la prima volta che due papi (Ratzinger e Bergoglio), entrambi viventi, scrivono un'enciclica

Lumen fidei: senza fede non c'è né speranza, né carità

di Gianfranco Morra  

Ora il trittico è completo. Dopo quella sull'amore («Deus caritas est», 2006) e quella sulla speranza («Spe salvi», 2007), papa Ratzinger lavorava ad una terza enciclica, sulla fede. Si è dimesso prima di finirla, ma in gran parte era pronta e passò al suo successore. Teologo di prima grandezza, Benedetto XVI intendeva riproporre le tre virtù teologali, quelle che il mondo greco-romano non conobbe, anche se aveva definito le quattro virtù morali, che il cristianesimo assunse e trascese. L'Europa è figlia di quelle virtù, le cardinali di Atene-Roma e le teologali di Gerusalemme, diverse, certo, ma anche convergenti. L'amore greco e quello cristiano, «eros» e «agape» non si contraddicono, come voleva la teologia protestante, ma si reggono a vicenda. Trovano una convergenza, come indicava Agostino, nella «caritas», trasformazione dell'amore di (da e per) Dio nell'amore del prossimo.
Ora che la «Lumen fidei» è stata pubblicata, possiamo capirne i motivi essenziali. L'insistenza dell'enciclica sul tema della fede intende mostrarne il ruolo fondativo rispetto alle altre due. Senza fede non ci sono né speranza, né carità. La fede è la risposta dell'uomo all'amore di Dio, che «ama per primo». È la «sostanza delle cose sperate» (Dante). Non è qualcosa di soggettivo, come oggi si crede, ma una realtà che ingloba e trasforma. L'uomo ha la fede, solo perché è dentro la fede, che è la fede della Chiesa, incarnata nella «vera» famiglia e nella comunità. Non possiede la fede, ma ne è posseduto. Come dice il titolo, la «fede» non è un «salto nel buio», non è «contro» ma «oltre» la ragione, è una «luce» che fa capire più a fondo. Non è «assurdità», ma «mistero». Fides et ratio.
La tendenza della attuale cultura debole del vuoto è di vivere la fede in chiave individualistica e narcisistica. Essa sarebbe un semplice hobby, da coltivare nel tempo libero. Tanto che è possibile definirsi cristiani e insieme ammettere condotte del tutto lontane dalla fede, che distruggono la vita e la sua dignità. Di tutte le esperienze spirituali la fede è quella di cui ancor oggi più si sente il bisogno, ma spesso con una tonalità più emotiva che pensata, meno ragionevole che sentimentale, più sincretistica che identitaria. Non trasforma più tutto l'uomo, ma gli si affianca come una possibilità provvisoria e modificabile, sempre episodica.
Non sappiamo sin dove Benedetto XVI ha scritto e dove Francesco I ha modificato e aggiunto. Di certo la tonalità dell'enciclica è consona alla sensibilissima lucidità teologica e alla pacatezza dello stile di Ratzinger. Il papa attuale l'ha assunta testimoniando così che il suo pontificato continua il precedente, anche se caratterizzato da una originale piattaforma pastorale: non condannare, non polemizzare e anche capire l'anticristianesimo, senza con ciò toccare la tradizione ecclesiale. La strategia pastorale di Francesco si sta traducendo in un largo ascolto della sua parola, non solo da parte di fedeli tiepidi e desiderosi di conforto, ma anche di coloro che trovano nel suo ecumenismo popolare un rifiuto di pesanti strutture dogmatiche e gerarchiche. E' «uno come noi», che gratifica e conquista le masse. Certo il papa non cancella un solo jota del «depositum fidei», ma largamente propone, con un linguaggio razionalmente cauto e passionalmente forte, il primato dell'agire per il prossimo.
Non è certo un caso che tre giorni dopo la pubblicazione dell'Enciclica egli si recherà a Lampedusa, isola divenuta ormai calvario di migliaia di migranti e, anche, luogo ormai arduo per residenti e turisti. La partecipazione al dramma epocale dei profughi, imprescindibile per i cristiani e assunto, anche se non sempre con ragionevolezza, dalle associazioni cattoliche, non è estraneo alla «Lumen fidei», di cui è l'obbligatoria realizzazione. Nella sua ultima enciclica, «Caritas in veritate» (2009), Ratzinger aveva trovato proprio nell'amore ordinato la spinta verso la giustizia e la pace.
Ma si tratta di una pace, che «non è quella del mondo» (Jo 14, 27). Ecco perché lunedì nell'isola della morte papa Bergoglio non vuole lo sciame dei politici-vesponi, pronti a sfruttare mediaticamente l'evento: un viaggio «privato», proprio per sottrarlo alle inevitabili strumentalizzazioni. Il mondo spesso ascolta la Parola, ancora più spesso la deforma.
Comprendiamo così che le «quattro mani», con cui, per la prima volta, due papi viventi hanno scritto l'enciclica, sono una cifra rivelatrice della continuità della Chiesa. I papi passano, «morto uno, se ne fa un altro». E tutti sono non poco diversi fra di loro per natura, formazione, esperienza. La Chiesa non è un collettivo, è la continuità di una tradizione, che perennemente si apre al nuovo, senza esserne schiava. Come mostra l'enciclica resa nota ieri.

© Copyright Italia Oggi, 6 luglio 2013

1 commento:

Luisa ha detto...

"La strategia pastorale di Francesco si sta traducendo in un largo ascolto della sua parola, non solo da parte di fedeli tiepidi e desiderosi di conforto, ma anche di coloro che trovano nel suo ecumenismo popolare un rifiuto di pesanti strutture dogmatiche e gerarchiche."


Ecumenismo popolare?
Quid?
Strutture dogmatiche?
Re-quid?
Che cosa ci toccherà ancora di leggere da parte dei laudatores -adulatori di Papa Bergoglio?