mercoledì 1 maggio 2013

Peterson e Ratzinger. Il confronto nel Cortile dei gentili (Osservatore Romano)

Il confronto nel Cortile dei gentili

di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz


L'espressione “Cortile dei gentili” delimita uno spazio semantico comune a credenti e pagani: indica l'insieme di quelle esperienze umane di fondo che si radicano nell'impossibilità di definire, se non addirittura di comprendere l'enigma della propria esistenza, del dolore e dell'angoscia (per quanto ammantati di felicità e successo), nell'assillante ricerca della verità grazie alla ragione e nel dubbio di poterla trovare -- infine nell'ineludibile darsi della morte. Peterson e Ratzinger appartengono a due diverse generazioni teologiche e provengono da ambienti dissimili; entrambi però hanno in comune il tentativo di raggiungere il “pagano” tardomoderno nella sua disperazione religiosa, di indicare nella fede un “approdo di salvezza” -- nella convinzione che sia appunto la fede a far intuire «un nuovo tipo d'essere umano, capace di trascendere la stessa natura umana». Che vi può essere di più affascinante d'una tale esperienza del trascendente?

Negli anni Venti del secolo scorso, dopo la sconfitta subita nella prima guerra mondiale, prese forma sulle rovine dell'Europa una “nostalgia escatologica”. Peterson ebbe modo di rilevarla nell'opera del filosofo Max Scheler, cui lo vincolava un rapporto di amicizia. In Scheler si concretava, in termini idealtipici per la propria epoca, la figura di quell'homo religiosus che condivideva con molti altri contemporanei una “religiosità intenzionale”.
Hermann Hesse descrive in modo impressionante questa religiosità apolide: «Subito dopo la fine della grande Guerra (1918) il nostro Paese era pieno di salvatori, profeti e sette di seguaci, di premonizioni della fine del mondo o di speranza nell'avvento di un terzo regno. Scosso dalla guerra, disperato per la miseria e la fame, profondamente disilluso a causa dell'evidente inutilità dei sacrifici compiuti, delle vite spese e del benessere perduto, il nostro popolo nutriva allora un certo interesse per alcuni pifferai, ma anche per qualche autentica forma di risollevamento spirituale; accanto alle danzanti comunità del baccantismo vi erano agguerriti gruppi di neobattisti, si dava di tutto -- e tutto pareva far riferimento all'aldilà e al miracolo. Abbastanza diffusa era anche una certa predilezione della sapienza indiana, di quella dell'antica Persia e d'altri saperi orfici o culti orientali».
Meno confusa era la tendenza al non credere, a cui farà successivamente cenno Edith Stein: «La mia ricerca della verità era un'unica preghiera».
Nel suo articolo su «L'uomo disincarnato» (1952), uscito in tedesco col più crudo titolo di L'odio contro la carne e pubblicato poi nelle Glosse di teologia, Peterson pone in evidenza una simile ondata di fervore religioso. Ne descrive le forme facendo riferimento anzitutto all'antica gnosi, per rilevarne poi la riconfigurazione nel presente e per contrapporre infine questa tendenza alla “forma” acquisita nel cristianesimo, alla sua purificazione -- un segno per tutti coloro cui l'insicurezza del tempo, con tutto il suo ambiguo esoterismo, non offriva alcuna via d'uscita.
Come dimostra Peterson, l'antica gnosi si occupava di una costante antropologica: la disorientante ambivalenza propria alla figura dell'uomo. Il corpo e il suo mondo non conoscono in effetti unicamente l'aspetto bello, attraente, ma anche quello caduco, opprimente, brutto. In tutte le sue varianti la gnosi forniva una risposta a quest'interrogativo. L'attuale forma dell'esistenza rappresenta, a suo avviso, l'evidente risultato della fallita creazione fatta da un cattivo creatore: «L'uomo gnostico è l'uomo che soffre della propria vita, che ha perso l'ottimismo (...), la disillusione dell'uomo gnostico è assoluta, come radicale è la sua sfiducia nei confronti di tutto ciò che sussiste». La suprema ragione universale, che avrebbe dovuto ordinare il cosmo, sarebbe di conseguenza una finzione greca; già la carne corruttibile, ma anche l'anima con le sue pulsioni e i suoi istinti, fanno riferimento a un'universale e sovrana non-ragione. Già la procreazione e la nascita provano in termini inconfondibili quell'insieme di sozzura e inconscio definito come “corpo”. Questa mancanza di dignità viene acuita dalla passione che può sottomettere l'anima, anzi lo spirito stesso. L'unica conseguenza che se ne può trarre è che la stessa sapienza divina sia mossa da dolore e passione nella sua costitutiva irritazione: «la tendenza è sempre la stessa: il disprezzo di questo mondo, del corpo umano e del suo creatore».
Queste forme mancanti possono aver origine unicamente dalla fonte prima, costretta a un profondo pentimento. È da tale punto originario che “l'uomo divino” è scaduto, in ragione della (inconsapevole) colpa che investiva tale punto e che egli ha perpetuato. Di più: «la sofia stessa si pone come origine del male», fonte di una cosmica tragedia. Secondo la gnosi vi è ragione di credere che quest'origine vada indicata come femminile: è la femminilità il portatore della carne, degli istinti, di un'esistenza mancata perché materializzata. Nella versione di Mani questa visione del mondo viene radicalizzata in seguito all'assimilazione della materia al demonico e alla passionalità che tutto inquina poiché radicata nella sfera sessuale. La sessualità è bramosia, la materia è bramosia, il male è bramosia, la femminilità è bramosia.
È comprensibile che da questa condizione d'inaccettabilità dell'esistente possa imporsi come unica via d'uscita una rigorosa distinzione di tipo dualistico. Il movimento verso la luce purificatrice è accessibile solo all'uomo ascetico che guida il corso del cosmo sino al suo compimento, quando l'inconscio si trasformerà nella consapevolezza. La fine sarà la grande e liberatrice separazione del bene dal male, la «salvezza della ragione grazie alla ragione stessa»; «questo atto intellettuale è però l'intelletto dell'uomo divino che si risveglierà dal sonno della sua inconsapevolezza».
Peterson vede in questa eresia un fenomeno che ha investito e dilaniato la Chiesa antica sino ai tempi di Agostino, una chiara contraddizione all'orizzonte aperto dall'incarnazione di quel Lògos che ha portato nel mondo l'unità di carne e Dio. È in riferimento all'Incarnazione che è maturata la coscienza esistenziale del cristiano. Nell'articolo Teologia della figura umana (1948) Peterson fornisce il ritratto di quell'Adamo che l'avvento di Cristo ha cambiato nella sua profondità. La conoscenza di Dio non ha quindi luogo a partire dalla creazione, ma dal fenomeno nuovo affermatosi con l'uomo.
Una presentazione del nuovo Adamo viene offerta dal noto saggio Teologia dell'abito. Il corpo, con tutte le sue infermità, è rivestito dal Pneuma: «A caratterizzare l'idea cristiana non è tanto l'abito dell'anima, bensì quello del corpo o (...) la resurrezione del corpo». Con analoga precisione viene interpretata la mano, che in ragione della ambivalenza con cui si esprime nel “creare” e nel “fare”, venne ricoperta in antico proprio al momento in cui si accingesse ad offrire i sacri doni: misericordiosamente ricoperta da un velo essa veniva in tal modo purificata dal “fare” e trasferita dalla sfera del transeunte a quella della vita. Particolarmente significativa è l'osservazione petersoniana che persino l'arte greca non ha attribuito al volto un'importanza superiore a quella data alle altre parti del corpo; nell'arte cristiana invece a essere rimodellato in forme nuove è il volto umano -- esso diviene ora quel capo elevato, destinato ad accogliere la luce della Grazia.
A partire da queste considerazioni è possibile individuare un itinerario verso il cortile dei gentili? Peterson, più che individuare un percorso, ne pone in evidenza le condizioni di necessità. Le coglie nella transitorietà dell'esistenza che si esaurisce in nostalgie prive d'ogni certezza, nel pessimismo e nel dolore cosmico in cui essa si arena e nel disprezzo della corporeità in cui essa infine naufraga. Secondo Peterson i termini della sfida sono invece di tutt'altra natura: «il vero enigma e la vera soluzione vanno cercati in un'antropologia incentrata sulla cristologia». Ciò significa liberare il mondo dalle contraddizioni che lo distruggono, liberare la corporeità dalla sua ambivalenza, pervenire alla possibilità d'accettare positivamente il finito poiché sarà a partire da qui che verremo introdotti nella vita eterna. Al cinismo di un mondo invecchiato anzitempo viene contrapposta la giovinezza della vita che verrà data in Dio.

(©L'Osservatore Romano 1° maggio 2013)

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